sabato, gennaio 31, 2009
Continuano le testimonianze per noi di Padre Renato Zilio, missionario, che si trova a Londra, al Centro interculturale di Brixton Road, dove si ritrovano tre comunità di emigranti: italiani, portoghesi e filippini.

“Ma lo ha fatto come domandandomi scusa e con una... dolcezza da farmi sentire confuso!” Luis, cileno, appena sbarcato qui a Londra, proveniente da Roma, mi racconta come si è subito scontrato con la proverbiale gentilezza degli inglesi. Con un policeman. Appena il tempo di accendersi una sigaretta fuori dellaVictoria station all’aperto ed ecco immediatamente l’intervento di costui. Qui niente sfugge, si era detto... A lui, invece, era sfuggito un segno per terra che indica la possibilità di fumare solo a un paio di metri dall’abitato... “A Roma sarebbe diverso, continua, per un’infrazione ti griderebbero addosso, a squarciagola e in dialetto...” Alla dogana inglese, poco prima, altra scena di imbarazzante cortesia. È vero, un altro mondo! D’altronde qui a Londra domandano scusa anche... i bus. “Sorry, fuori servizio” portano alcuni scritto in grande passando... Sorry! mi dispiace, lo senti ripetere ad ogni angolo come un ritornello, poi ti abitui e... non dispiace.

Ma se il nostro missionario cileno lo lasci parlare di Roma ti racconterà di aver atteso quasi due anni per avere un permesso di soggiorno (e naturalmente la cassa mutua), pur con una regolare attività pastorale in comunità latinoamericane. “E dire che noi preti in Italia siamo privilegiati!” conclude mortificato, pensando agli altri stranieri... Capisci così che da noi non è solo questione di forma, ma anche di contenuto. Non solo di gentilezza, ma anche di efficienza.

Rimanevo sempre incantato quando in Francia assistevo a un dibattito televisivo. Seguivo con quale “esprit de finesse” l’avversario smontava il progetto dell’altro, ne sviscerava i meccanismi, poneva domande inquietanti... in modo, a volte, da non permettere via di scampo. Salvando, tuttavia, con eleganza la faccia dell’interlocutore. Sì, adoperare il bisturi - il rigore dell’analisi - ma con i guanti: un’arte abituale nella terra di Molière.

Invece nel nostro Paese spesso viene in mente quella proverbiale battaglia di Alessandro Magno, quando diede l’ordine ai suoi di colpire l’avversario al volto. Ed essendo tutti giovani di nobile discendenza era il peggiore punto da mirare... e così anche quella volta ebbe la meglio. Da noi, infatti, spesso si colpisce la persona insieme al fatto, ci si getta contro un’idea, ma con veemenza anche contro chi la porta. Non riuscendo a fare quella distinzione salutare tra l’avversario e una convinzione espressa, tra un uomo e il cammino fatto. Non si concede remissione, tutto viene squalificato: sogno segreto di onnipotenza! “Siamo molto individualisti, mi scrive recentemente Silvana, sembra che viviamo su tante isole, pronti solo a guardarci per criticare e sparare a zero...”

Vivere all’estero si imparano, tuttavia, altri modi di rapporto con il tempo, con lo spazio, con la parola e il senso dell’altro. La parola non è un’arma. Non si va a un incontro come alla guerra. Ricordando quel proverbio: “Il coltello colpisce da vicino, ma la lingua a qualsiasi distanza.” La parola è uno strumento di lavoro, di scambio o di chiarimento a volte radicale, ma non oltraggioso. O di sinergia portata avanti ad oltranza...

È quello che si è visto qualche mese fa con il concilio della chiesa anglicana riunito a Lambeth, come ogni dieci anni. Stando sul tappeto vari problemi il primate invitava i settecento vescovi di tutto il mondo a discutere in “gruppi indaba” sui diversi temi. Indaba è una parola della cultura zulu: indica che attorno a un argomento si discute senza contare il tempo fino a raggiungere un accordo o una piattaforma comune. Viene, così, proposto il cammino e la meta: il senso finale di un’intesa. Non la rottura.

L’incontro con altre culture può aiutarci in questo: ad uscire dall’individualismo che sembra a volte far parte dei nostri cromosomi. Ad imparare da culture più sensibili e aperte all’altro a relativizzare il nostro io, limitando la nostra invadenza o la nostra possessività. Curare così una relazione più bella e rispettosa con l’altro. In modo che la cortesia non sia solo dote del cameriere che accarezza la presenza del turista. O del commerciante intento a conquistare un nuovo cliente. Ma significhi più profondamente il senso dell’alterità. Il valore dell’altro e della sua dignità, da rispettare sempre.

La cortesia - arte della corte, non del villano - può far miracoli. Come, in fondo, ci ricorda un detto della cultura giapponese: “Noi non sorridiamo perchè qualcosa di buono è successo. Ma qualcosa di buono succederà perchè sorridiamo!”

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