domenica, febbraio 22, 2009
Continuano le testimonianze per noi di Padre Renato Zilio, missionario, che si trova a Londra, al Centro interculturale di Brixton Road.

“Ma venga avanti... entri!” parole che qui all’estero lasciano sempre sorpresi. La gente che si presenta alla Missione cattolica italiana esita un po’... non è abituata. Gli inglesi, infatti, qui ti lasciano sulla porta: no, non si entra. Sarà il loro senso della privacy, il senso del dominio del mondo di un tempo, il carattere solitario di un’isola... insomma, essere accolti, accomodarsi è sempre una sorpresa.

Accogliere, in realtà, è sempre un’arte. Ricordo un vecchio professore dei miei studi in terra francese. Quando mi presentavo a lui su appuntamento aveva ancora cento cose da sbrigare: un ultimo fax da inviare, una lettera da concludere... Ma poi, dopo qualche minuto, si metteva le mani concerte come per legarsele: “Eccomi qua, scusate, sono interamente a voi!” Restavamo, così, noi due soli al mondo. Ed evidentemente, in centro campo, il mio problema: uno splendido gioco, allora, cominciava... Accogliere è fare il vuoto in sè. Ma anche il vuoto di se stessi: preoccuparsi solo dell’altro, fargli posto nel tuo mondo o nella tua vita. Anche se ci sono modi e modi di accogliere...

Ripenso ancora a un ritiro originale, tempo fa, di tutto il presbyterium della diocesi in cui mi trovavo. Vi era stato invitato, a sorpresa, anche un paio di attori per presentare il nostro modo di accogliere la gente. Accogliere è senz’altro un gesto fondamentale del nostro comportamento, la chiave di volta di una relazione, i primi passi di un cammino... Con questi due artisti, allora - in maniera simpatica, ma vera - era un guardarsi allo specchio, un rivedersi a scena aperta. Si affrontavano, in fondo, situazioni stupende e... riflessioni feroci. A cominciare da quel “Siiii...” di chi accoglieva senza alzare neppure uno sguardo, noncurante di chi entrasse... o un “sei qui a farmi perdere tempo!” per chi, prevedendo già il muro di quella risposta abituale, aveva preso in mano tutte le sue forze trattandosi di cosa grave... Il tempo lo si vive nell’azione, quasi mai nell’attesa, nell’accogliere o nel contemplare. Saper mettere il nostro mondo in stand by, è vero, è sempre un’impresa!

Il termine “accueil,” accoglienza, lo trovavo scritto, invece, in grandi caratteri in terra francese, in quasi tutte le strutture pubbliche e private. Il cittadino stesso ha bisogno - per prima cosa - di essere accolto, informato, indirizzato... per non cadere in un posto sbagliato, per non girare a vuoto. L’accoglienza, anche la società si preoccupa di farla e ne conosce l’importanza!

Accogliere è arte essenziale, gratuita. A dir il vero, è arte divina. Assomiglia in maniera manifesta a quel Dio che è sempre a braccia aperte, non guarda in faccia a nessuno ed è disponibile per chiunque... Perfino un’espressione popolare arriva consolante in situazioni bloccate, ricordandocelo: “Dio non chiude mai una porta, senza aprirne un’altra!”

Per noi spesso, invece, è l’arte della difesa. Del come sapersi difendere per salvarsi. Anche se vi verrà subito in mente quella bonaria e sapiente disponibilità di Papa Giovanni, uomo arguto come lo sa essere un contadino: “Ascoltare tutti, ma credere a pochi!”E per lui era una regola d’oro. Accogliere è sempre un atteggiamento di disponibilità, di apertura e... di misericordia. “Un fiume fangoso è l'uomo, osserva F. Nietzsche in Zarathustra, bisogna essere un mare per poter accogliere un tal fiume senza diventare impuro”.

Vivendo in emigrazione, in una grande città all’estero, ho potuto conoscere due grandi missionari, due modi diversi di accogliere. Uno accoglieva la domanda di un aiuto, di un’elemosina e subito pronto estraeva qualcosa. L’altro, invece, faceva entrare, prendeva tempo, telefonava ad altri organismi... “Faccio lavorare gli altri!”, diceva tranquillo. Attirava, così, la loro attenzione e competenza, facendo l’advocacy di una persona o di un caso difficile. Sapeva accogliere, in fondo, una storia umana. Il poveretto usciva sempre senza uno spicciolo; si sentiva, però, più forte, più degno dell’attenzione dell’altro, come dopo un cammino di coscientizzazione...
“Anche se è vero che il primo povero da accogliere, potrebbe sorridendo puntualizzare Carlo Cabras, siamo noi stessi, perchè la nostra povertà, a parte Dio, nessuno la vuole!”

Tuttavia, l’esperienza più vera o più dura dell’accoglienza, saranno sempre i migranti a viverla in prima persona. Come un autentico test. Ogni migrante rivela, così, pur senza dirlo, in quale realtà si trova a vivere. Se in una povera società - paurosa di sè e dell’altro - o in un grande Paese!

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