mercoledì, febbraio 11, 2009
Continuano le testimonianze esclusive di Padre Renato Zilio, missionario scalabriniano che si trova a Londra, al Centro interculturale di Brixton Road.

Era appena terminata per tutti la guerra. Per loro, però, ne incominciava subito un’altra: l’emigrazione. Il fronte era l’Europa industriale. Era l’Inghilterra, ad esempio. Qui dovevano imparare a combattere con un clima maledetto. «In una sola giornata», ti dicono ancora oggi, «qui si vivono quattro stagioni!». In una terra in pieno mare, la meteorologia cambia continuamente e sempre in peggio, si guasta. E poi combattere con una lingua incomprensibile, con un ritmo di lavoro da prima nazione industriale europea (la pausa-pranzo anche oggi è di mezz’ora) e con un nuovo status: diventare operai, da contadini che si era prima. E, in fondo, combattere con una nuova identità: sei migrante. Sei di una razza inferiore, vieni da altrove. E questi eravamo noi, gli italiani.

Li incontro ancora oggi qui a Londra, vecchi combattenti di un tempo, di quaranta o cinquanta anni fa. Si radunano ogni mercoledi alla Missione italiana per una giornata
dedicata tutta a loro: pranzo sociale, animazioni, gioco delle carte, scambio di notizie... Sì, perchè il loro nemico ancora rimasto in piedi, in questo mondo freddo
e anglosassone, è la solitudine. Si ritrovano pure alla domenica per la messa tra italiani. Occasioni preziose, senz’altro, di incontrarsi, di ricordare e di sentirsi fi eri di un arduo percorso fatto. Momenti conviviali forti e necessari che mettono insieme passato e presente, sogni e realtà, l’oggi e il domani.

Emigrare è sempre una lotta. Lo è per il pane e la dignità: ambedue esigenze vitali per ogni essere che emigra. E partire, si usa dire proverbialmente, è sempre morire.
Ma per loro è molto di più: è sapersi rinnovare e rinascere altrove. In questo, allora, il coraggio non si conta mai. I sociologi, puntigliosamente, poi, preciseranno i fattori pull e i fattori push, aspetti che attirano o che respingono nell’esperienza di emigrazione.
Questo aiuta a non dimenticare quanto dall’Italia li respingeva: una vita di miseria, sovrappopolazione, mancanza di risorse, di prospettive, di speranza. Queste ultime ancora vere, purtroppo, per i giovani che arrivano qui oggi.
In Inghilterra, invece, allora esistevano per loro delle domande concrete e precise da parte di un mondo pragmatico, anglosassone. Per esempio nella regione di Bradford la lavorazione della lana da tutto il mondo, in particolare dalle colonie dell’impero britannico, faceva nascere un’infinità di filande tessili. Ecco il lavoro per le nostre ragazze del Sud Italia. Naturalmente contratto vincolante per i primi quattro anni. In mancanza di italiani sul posto queste, poi, sposavano ucraini, polacchi, lituani che lavoravano nelle miniere e nelle regioni agricole della zona. Invece a Loughborough quasi tutti gli immigrati vengono da un paese vicino a Campobasso, Busso. Uno tirando l’altro, come i grani di un rosario, tornavano poi al paese per sposarsi e riportare qui la sposa novella. Così pure a Woking, tantissimi dallo stesso paese siciliano, Mussomeli.
Nel Bedfordshire, invece, erano varie fabbriche di mattoni che servivano per la ricostruzione dell’Inghilterra: occasione di creare una grande comunità italiana di lavoratori. Perfino 14 ore al giorno, a cottimo. Tutti lavori duri, spossanti, a contratto bloccato, affrontati con quel “senso aggressivo della vita” che caratterizza la volontà di ogni migrante di riuscire. Lo si vede ora nelle conseguenze sulla loro salute, molto più malandata dei loro coetanei inglesi. O con emozione li ritrovi quando le vedove ti invitano a benedire le tombe. E allora resti sorpreso di notare il nome scritto in ucraino, in polacco, in lituano accompagnato semmai da una croce ortodossa.
“A un emigrante non chiedere mai da dove viene, ma dove va!”. È una raccomandazione sempre vera, anche nel caso di Edgard Jabès, ebreo di origine italiana vissuto al Cairo. È essenziale, infatti, ricordare il senso profondo di una vita migrante: ricostruirsi e ricostruire la vita. Far crescere un Paese, anzi due, spesso.
All’inizio ci si sente provvisori e in transito. Poi il cammino fa capolinea nel paese di arrivo. L’espressione tante volte ripetuta, «torneremo in Italia», diventa in seguito «ci ritorneremo per le vacanze». Il tempo passa in fretta, le generazioni si susseguono, i figli e i nipoti spezzano i sogni di ritorno. Da emigrati si diventa italiani nel mondo, e poi, con una nuova generazione più inserita, italiani del mondo. Constatava già con una consolante serenità mons. Scalabrini, un secolo fa: «La patria è la terra che vi dà il pane».
E gli italiani in questa seconda patria «sono molto rispettati: lavoratori seri, coscienziosi, infaticabili e sempre pronti ad aiutare si sono adattati a situazioni severe senza lamentele, ma con tanta grinta e sacrifi cio», spiega il responsabile dei missionari.
«Ma l’orgoglio italiano nelle famiglie emigrate», mi fa Antonio, «si nota in tante cose!». Me ne sottolinea tre come le più comuni qui: la cucina, il vino fatto in casa, il proprio orto-giardino, con il fico, la vigna, il limone, l’olivo, i peperoni. Da generazioni, infatti, visto le penalties per l’importazione di alcool,
i nostri emigranti importano l’uva dall’Italia per farne qui sul posto il prodotto tipico per sentirsi italiani nel paese della birra. La ristorazione, il buongusto a tavola, così, da sempre è stato appannaggio di tantissimi italiani a Londra, che iniziavano dai gradini inferiori della cucina, delle pulizie e del lavare i piatti. E in seguito nel far sorgere ristorantini e pizzerie. Si è aggiunto poi il fenomeno dei tanti nostri professionisti della finanza che lavorano nella City. È venuta l’ondata degli studenti della lingua inglese e del Progetto Erasmus: migliaia
che ogni anno trascorrono un certo periodo in Gran Bretagna, per lo più a Londra. Non pochi di loro, alla fine, sono rimasti in Inghilterra. Giovani con un buon livello di studio che hanno appreso con una certa facilità la lingua inglese. Tra questi tantissimi facevano parte di quello che familiarmente qui veniva chiamato, essendo sfuggiti alle maglie della leva italiana, il “battaglione Tamigi”. Un altro gruppo di giovani, invece, è rimasto più anonimamente nelle maglie della tossicodipendenza londinese. Evidentemente, per loro, la guerra non è ancora finita. Quella della nostra emigrazione.

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