lunedì, agosto 17, 2009
del nostro redattore Renato Zilio, missionario scalabriniano

Missione. Un termine splendido e particolare, forse rimasto vittima della sua storia e degno di essere rivisitato. Esso suggerisce il valore pieno dell’invio, l’incarico del diffondere, l’impegno del fare e un... segreto senso di conquista! Quest’ultimo, infatti, a volte sa insinuarsi sottilmente nel nostro stesso modus operandi. Dimenticando che un giorno il Signore inviò i suoi discepoli a due a due, ma a mani nude. Divennero allora suoi apostoli, coloro che agiscono come lui e in nome suo.

Ricordo l’iniziativa di una congregazione francese di accompagnare per un mese dei giovani in Africa, come modulo di formazione e di solidarietà con quella terra. Non era, però, per un progetto di costruzione di pozzi o di strutture varie, che sarebbero poi servite alla popolazione. Ogni giovane era affidato a una diversa famiglia del villaggio e doveva semplicemente vivere con loro, a loro ritmo, seguire la donna che andava all’orto, stare accanto al fuoco mentre si cucinava... insomma, accompagnare passo passo la vita di una famiglia africana. Non dovevano fare nulla! Solo vedere, osservare, registrare con la mente e con il cuore. Sorprendente risultato quando ritornavano in Europa: erano trasformati. Essere missionari è lasciarsi trasformare dall’altro che si incontra. È convertirsi personalmente prima, eventualmente, di convertire. È, in fondo, lasciarsi conquistare dalla gratuità di Dio.

Mi tornano spesso in mente le parole commosse di un vescovo in un monastero di suore durante una sua visita:“Sono venuto a scoprire ancora una falda d'aqua sotterranea che fa vivere la nostra diocesi!” Rivelava, così, la sua particolare attenzione alle differenti sorgenti di vita presenti nella diocesi: le comunità vive. Al pari di un rabdomante, anche per il missionario ciò significa andare a riscoprire la sorgente d’acqua che fa vivere un popolo, una cultura. È contemplare, così, il cammino di uomini e di donne accompagnati invisibilmente da Dio. Chiamarlo, finalmente, per nome: l’Amore. E rivelarlo attraverso tre tappe graduali, feconde: il vedere, il discernere e l’agire. Osservare la vita degli uomini, intravederne il senso e il suo mistero, infine agire.

Così, per me la missione è vivere in mezzo a comunità di migranti. Ciò mi ricorda che fu proprio uno straniero, incontrato per caso, a diventare il maestro di un gesto indimenticabile: lo spezzare il pane. Era sulla strada di Emmaus ed è rimasto il gesto tipico, rivelatore del Signore e della sua presenza. È anche l’immagine più alta e più vera dell’esistenza di un migrante: spezzare tra il pianto la propria cultura, le energie, i legami affettivi e originari, la propria identità per far vivere altri che neppure conosce.

Milioni di uomini e di donne vivono nel mondo, nelle loro comunità, nelle famiglie questo gesto. Una vita che si spezza, una vita che si dona. Ma chi spezza la propria vita per la libertà, la dignità o la vita degli altri rivive l’esistenza stessa del Cristo, il suo mistero pasquale. Spesso senza saperlo. È la missione grande del missionario quella di aiutare a riconoscervi il Signore in un gesto che rivela per eccellenza la sua identità: pane spezzato per la vita degli uomini. Ed è come una forza inaudita che solleva l’umanità fino a Dio, dove insieme la morte e l’amore si fanno vita per l’altro. Spezzarsi e far vivere gli altri è la particolarità e, allo stesso tempo, l'universalità del Cristo in qualsiasi angolo del mondo. Egli precede, così, i suoi discepoli in ogni terra di Galilea.

In fondo, la missione farà ricordare un meraviglioso, antico detto zen: “Non è veramente colui che riceve, ma colui che dona a dire all’altro: grazie!”

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