domenica, settembre 06, 2009
del nostro redattore Renato Zilio

Il cammino della Chiesa e dei nostri emigranti italiani in Europa è stata un’esperienza coraggiosa, feconda e di forte solidarietà: essa ha accompagnato per lunghi decenni la straordinaria avventura dell’emigrazione italiana. Così, le Missioni cattoliche costituiscono una delle colonne su cui quest’avventura si è costruita dal dopoguerra in poi, assieme all’associazionismo italiano. Missionari, religiose, collaboratori hanno mostrato una passione e una compassione grandi per un’enorme diaspora di comunità di lavoratori italiani all’estero. Ne hanno preso a cuore l’aspetto religioso e sociale, allo stesso tempo. In fondo, un’attenzione ammirevole all’uomo integrale, cioè al migrante, al suo mondo, ai suoi bisogni più vitali a cominciare da quello religioso, ma non riducendosi ad esso. Scuole, asili, case di riposo, centri di ritrovo, luoghi di culto ne sono spesso tuttora splendidi testimoni. Si può ammirare, così, un volto nuovo, empatico e combattente della Chiesa stessa per una parte di umanità, come ricordava Giovanni Battista Scalabrini: “Dove l’uomo soffre e lotta lì è la Chiesa!”.

Le Missioni cattoliche hanno impostato la loro azione sulla componente culturale della italianità, come matrice della fede nel suo trasformarsi attraverso quel passaggio del deserto che è l’esperienza del migrare. La fede per un migrante non è solo devozione o tradizione. È un dinamismo che fa avanzare e superare difficoltà di ogni genere: è un vero motore. Il ritrovarsi alla Missione, allora, è sempre un movimento di sistole e diastole che fa vivere e sostiene in un percorso esistenziale di rottura, di incontro e di dispersione incessanti.

La modernità delle Missioni è testimoniare oggi un valore paradigmatico: l’importanza della fede innervata alla propria cultura. Per qualsiasi migrante e a qualunque religione si appartenga. Il fatto religioso diventa una forza, una fiducia rinnovata nel Dio di Abramo, il Dio dell’itineranza. E si fa in questo modo appello, incoraggiamento interiore ad avanzare: per chi emigra ciò vale ancor più del pane.

L’attualità delle Missioni cattoliche italiane è ora direttamente proporzionale alla loro capacità di trasformarsi, di cambiare, di entrare in relazione. Dipende dalla loro apertura, dai ponti e dalle sinergie che sanno costruire con la realtà sociale ed ecclesiale tutt’intorno, che spesso lo richiede a viva forza. In un tessuto ecclesiale, che all’estero è costituito sempre più da unità pastorali, la Missione non potrà sposare la solitudine o l’isolamento.

Viene in mente, allora, la duplice immagine che il Consiglio Ecumenico delle Chiese (COE) proponeva a un gruppo di giovani d’Europa di differente religione, interrogandoli appunto sulla loro identità religiosa. È questa una fortezza o una sorgente? Le dinamiche sottese sono ben differenti, anzi contrapposte: la prima si basa sulla chiusura, la separazione, la distanza o la difesa ad oltranza. L’altra, invece, sulla forza interiore, il senso dell’origine, il valore vivo della tradizione, la disponibilità alla condivisione, la fiducia nel mistero di Dio.

Avendo accompagnato soprattutto la prima generazione di migranti, le nostre Missioni celebrano ora più funerali che battesimi o matrimoni... Non è, tuttavia, il modello biologico che segna le loro stesse vicende - quello di nascita, di crescita e di morte - ma piuttosto il modello pentecostale. La Chiesa locale dotata con esse di volti particolari, di popoli diversi, di storie di salvezza originali riscopre, così, per incanto - grazie a una o più comunità di migranti nel suo seno - la sua ricchezza. E si fa testimonianza di una straordinaria quanto difficile regola d’oro: solo l’alterità riconosciuta e accettata costruisce la comunione. Non l’omogeneità.

In fondo, le Missioni cattoliche hanno insegnato ai nostri emigranti ad accogliere la loro storia, i segni di Dio nella propria tragedia, la speranza in tutte le vicissitudini incontrate. Esse hanno insegnato a rileggere, pure, i cantieri, le miniere, i tunnel, le opere costruite ovunque come inediti santuari di una nuova umanità. Quella che ha saputo costruire non solo opere, ma lunghe e straordinarie solidarietà.

Così, emigranti italiani, spagnoli, polacchi, portoghesi hanno creato insieme legami di stima, di fratellanza e di dignità reciproca. Si sono riconosciuti gli uni gli altri compagni di viaggio. E senza saperlo, pur nel loro piccolo, hanno costruito comunione tra gli uomini: in loro hanno saputo unire popoli diversi. Il missionario, nella sua ricerca di senso, ne è rimasto spesso spettatore incantato, aggiuntosi come il terzo pellegrino sui passi verso Emmaus... Per questo i missionari scalabriniani d’Europa hanno optato, nella loro sfida missionaria del futuro, per il modello intercomunitario nelle grandi città come Milano, Roma, Londra, Parigi, Ginevra... È un bel cammino da fare insieme ormai tra comunità di migranti di differente lingua e cultura: segno pentecostale del popolo di Dio.

La storia dell’emigrazione italiana in Europa è stato un vero crogiolo. L’oro ne è stata la solidarietà. Insieme al valore della fede, al senso dell’essenziale, a una bella capacità di inculturazione e di adattamento, all’apertura di mente, di cuore e di orizzonti. “I sistemi si oppongono, gli uomini si incontrano”: una massima diventata veramente per i nostri emigranti esperienza viva.

Ed è questo, in fondo, il segreto cammino di Dio.


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