martedì, novembre 10, 2009
Renato Zilio, missionario scalabriniano a Londra, ci racconta la sua esperienza nell'ambito dell'anno sacerdotale

Al di là di tante Congregazioni di sacerdoti dedite a devozioni belle e nobilissime, la nostra è animata da un carisma originale. Esso nasce dalla passione di chi ha amato uomini, volti e storie di esseri umani che camminano ancora oggi condotti per mano da Dio. Sono i migranti. La loro avventura umana, in fondo, è un’originale “storia di salvezza”. Accompagniamo, così, la vita, la fede, la cultura di comunità di italiani all’estero, di portoghesi, di filippini o latinoamericani...
Il nostro è pure un carisma di valori. Essi si rivelano nella società di oggi valori attuali, vitali e indispensabili. L’accoglienza dell'alterità. Il valore della minoranza. Il senso forte della fede per un popolo che emigra (a qualsiasi religione appartenga). Il valorizzare e il relativizzare, allo stesso tempo, una cultura e un’origine. La disponibilità a lasciarsi condurre dal Dio di Abramo. La solidarietà con chi affronta con coraggio lo sradicamento e il trapianto della propria esistenza. Insomma, sono l’apertura di mente e di cuore, l’universalità, la comunione.

Si rivela preziosa per noi anche la mobilità, una grande dote di un carisma che si dedica all’itineranza umana. Ciò è valido anche per ogni leader. L'eccessiva stabilità impedisce il rinnovarsi della comunità, del leader stesso e della sua missione, che non può esprimere, così, la ricchezza di altre qualità, di altri volti o di capacità differenti! Il cambio di pastore, d’altronde, è sempre una bella occasione di mostrare a una comunità la fratellanza e il medesimo spirito di servizio del pastore che parte e di quello che arriva...

Questo senso della comunione resta oggi una sfida grande. Essa si è ormai portata “ad intra”, attacca il nostro centro di gravità, il cuore stesso del nostro essere. Esige, ormai, un gioco di squadra, un saper lavorare in team, un costruire insieme, che un cammino di formazione non ci ha proprio insegnato. È ancora difficile per noi superare il senso del simile e il senso forte dell’io, far posto all'alterità dell’altro, oltrepassare una complicità con pochi che cortocircuita un agire comunitario, il saper cedere e concedere in nome dell’unità, il mettersi nelle mani degli altri per un cammino comunionale... Mettersi nelle mani dell'altro, in fondo, è la dimensione esistenziale di ogni vita di migrante: in questo i migranti sono nostri maestri.

Ho conosciuto la Chiesa del Maghreb che vive in un contesto musulmano: mi ha sempre impressionato il suo originale modus vivendi, il suo stesso essere. È il senso attualissimo ed evangelico del perdere e del perdersi, del farsi all'altro, della kenosi, dello svuotarsi, del farsi piccoli nel servire perdutamente una società totalmente altra, differente. E ciò per farla crescere in umanità nella sua differenza. Esperienza di vita che attualizza oggi in maniera inedita, gratuita e coraggiosa il messaggio stesso di san Paolo.

Ricordo con gratitudine la testimonianza di sacerdoti che hanno vissuto questo “essere vuoti di sè” incarnando a meraviglia lo spirito di servizio che noi tutti professiamo. Il primo a farlo dovrebbe essere ogni responsabile, chiamato non a vincere ma perdere, a svuotarsi, a lasciarsi abitare dall'altro, non nutrendo alcuna ambizione se non quella di far crescere la comunità che accompagna e il suo avvenire. “In posti di responsabilità l’umiltà è sempre una carta vincente!” mi confida un sacerdote africano.

Ricordo ancora con quanto bella e umile semplicità Michel, parroco francese, ai suoi sessantacinque anni presentarsi al Vescovo: “Père, basta per me stare in prima linea! Mettete semmai un giovane o il mio cappellano stesso e se lui vuole potrò essergli consigliere, aiuto e sostegno!” Ma era anche una mentalità diffusa: mettersi nelle mani di un altro, lasciarsi cingere i fianchi, come l’apostolo Pietro. Grande, invece, era sempre la mia sorpresa, quando rientrando in Italia, incontravo ultrasettantenni ancora ben saldi al timone... e semmai da decine di anni!

Mi è sempre difficile, allora, dimenticare le parole di un laico, passando in una casa di riposo del clero: “Alcuni sa, sono veramente dei solitari!” esclamava, enumerandone le virtù: acidità, intolleranza, chiusura relazionale. Spero che la mia vecchiaia di missionario non sia caratterizzata da questi aspetti, che sono risultato di un percorso umano e spirituale non maturante o di un’esperienza... unicamente direttiva! In fondo, solo un essere comunionale - colui che sa perdere e svuotarsi di sè - saprà costruire vere comunità. E un giorno affidarsi magnificamente alle mani di Dio. Sì, anche solo a fior di labbra, con il suo magnificat!

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