venerdì, gennaio 29, 2010
del nostro corrispondente a Londra Renato Zilio

“Benvenuto a casa tua!” mi dice con un sorriso così sincero che non stento un istante a credergli. E, difatti, tutto qui sembra fatto apposta per accogliermi: la cella tutta in moquette, un fiore sul tavolo, il miele e una teiera sempre disponibili... È un monastero benedettino inglese: Worth Abbey. Ogni monaco che passa ti guarda, sorride, saluta appena e scivola via. Ognuno sembra accompagnato da madonna discrezione e dalla cortesia. Il priore è un australiano dallo sguardo sicuro e dalla parola dolce: uno scrittore come Thomas Merton. Così, sembra veramente di essere a casa: tutto è semplice, caldo, accogliente come ogni casa inglese, mentre fuori la neve imbianca un paesaggio da incanto.

Anche in Francia visitavo spesso dei monasteri per una o più giornate, ritrovandovi sempre altri sacerdoti che conoscevo. “Sai, è il mio abbonamento mensile!” mi diceva qualcuno con un sorriso negli occhi. È vero, la familiarità con un monastero ti cambia dentro, ti modifica il ritmo e lo stile di vita. Perfino la maniera di celebrare diventa più essenziale, autentica, ispira la pace.
In questa antica abbazia inglese è passata da poco una troupe della BBC, cinque uomini. Hanno vissuto qui nel monastero per 40 giorni e 40 notti: uomini sposati o celibi, credenti e non. Ne hanno fatto un servizio televisivo, un audience di tre milioni di telespettatori, un sito web dell’abbazia assalito da 40.000 visite. Raccontavano tra l’altro come essi stessi erano stati trasformati interiormente. Un’esperienza straordinaria.
Sorprende il monastero, la pace, la laboriosità, la vita interiore. Ancor più sorprende la chiesa: rotonda, moderna, un cerchio perfetto. Al centro vi è un altare di marmo bianco di Carrara, mentre alle spalle, in uno spicchio di cerchio, il coro dei monaci. Illuminatissimo nella notte l’altare, simbolo del Cristo, nella penombra di una miriade infinita di sedie tutte in cerchio, invita ad entrare nel senso mistico della Chiesa. È il mistero del Cristo al centro dei suoi discepoli. Ad un monaco domandavo il perché di questa bella forma di chiesa, originale, mai incontrata altrove. Ed egli mi ricordava la data di nascita della costruzione, nel giugno del ’68, subito dopo il Concilio. Era la cristallizzazione della sua idea più grande e più bella: la circolarità, la collegialità nella Chiesa di Dio. La fraternità, in fondo.
Nel monastero la si vive in maniera concreta, quotidianamente. Ti senti come circondato in ogni gesto o in ogni dettaglio dall’attenzione affettuosa di una comunità monastica immersa nell’ora et labora. Anche a tavola, durante il pranzo in silenzio, qualcuno ti riempie il bicchiere o ti raccoglie il tovagliolo. Perfino il loro respiro risente di questa circolarità: il canto gregoriano sale con volute dal movimento circolare, come un’onda che avanza rotonda tra arsis e thesis, partendo dalla punta dei piedi come per i monaci del medioevo. Non si respira a stantuffo qui, assolutamente.
Il mettere in circolo, inoltre, il far circolare la vita come lo è per il sangue, il non trattenere nulla per sè, si rivela dinamica vitale per ogni discepolo. Come lo erano ieri le parole di un monaco; essenziali, vere, entravano nell’animo di trecento giovani e ragazzi inglesi assiepati nella bella chiesa rotonda.
“Dovrai sempre sentire gli altri come posti attorno in cerchio con te, come quando ci si dispone intorno a un fuoco. Solo in questo modo ricorderai che esiste, invisibile, in mezzo a voi un centro ed è Colui da cui provengono la vita, la forza e l’amore. Infatti, la figura del cerchio, a differenza di un quadrato o di una piramide, rinvia necessariamente a un centro che lo genera.

Allora, disponendovi così fra di voi l’uno non sarà mai più importante o sopra l’altro con il rischio di calpestarlo. Sarete interdipendenti, in un mondo in cui ognuno si sentirà legato agli altri. La forza di ognuno sosterrà tutti gli altri e se tu avrai più forza o più potere sarai ancora più fraterno, sostenendo gli altri con maggiore vigore. Non potrà mai esserci, in fondo, uno superiore fra di voi. Semmai, un fratello più grande.

Ricorderai, così, quando Lui per l’ultima volta raccolse intorno i suoi discepoli e si abbassò così tanto davanti a loro da toccare i piedi ad ognuno e lavarli. E dopo averli lavati, li baciava… piedi benedetti! Avrebbero camminato nel mondo ancora per chilometri infiniti, per annunciare che Colui che era morto era ancora vivo. Rimasto al centro, invisibile, in mezzo ai suoi discepoli, anche fossero due o tre insieme... In fondo, mettersi in cerchio fraternamente è farLo rivivere ancora!”

I giovani ascoltavano assorti il più grande loro impegno di vita: la fratellanza. Sfida, pure nella Chiesa, sempre attuale.

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