venerdì, giugno 18, 2010
dal nostro corrispondente da Londra Renato Zilio

“Ma questa è un’invasione!” mi fa un impiegato inglese solitamente così serio e rituale allo sportello della vicina banca Barclays. Parla dell’arrembaggio dei nostri giovani italiani a Londra da un certo tempo in qua... Evidentemente, nella città più popolosa e multiculturale d’Europa essi arrivano e scompaiono facilmente, mentre il loro accento si polverizza tra le 300 lingue che qui si parlano. Tuttavia il fenomeno si è ingrossato ultimamente e si rende visibile. È un cattivo sintomo per il nostro Paese, commenta qualcuno. La nostra è diventata per moltissimi giovani una terra senza speranza, senza prospettive e dalle rare opportunità. Per il nostro popolo - da sempre ottimista e ambizioso – è, in fondo, un vero handicap.

Sono giovani laureati o diplomati, ragazze forse più dei ragazzi, ventenni e più... Sbarcano, si propongono di rimanere qualche mese, qualche anno, senza precise scadenze. L’attrazione prima è la lingua, vero passaporto per il mondo. Poi, in realtà, si agita sempre quel “sogno di Londra” così attraente anni fa come un’illusione collettiva per un modus vivendi più funzionale, con meno burocrazia, il clima di una società aperta e liberale, la complicità con tanti altri giovani.

E, infine - aspetto nuovo in loro – con la disponibilità ad ogni tipo di lavoro: la psicologa si fa baby sitter, il laureato cameriere... e forse seguono qui contemporaneamente qualche corso all’università. Si parte dal basso. Quasi riscoprendo dei geni ereditari della cultura italiana: una straordinaria capacità di adattamento, un grande senso di universalità e apertura al mondo. Naturalmente, quando il campanile paesano non prende il sopravvento! E così vanno all’estero - go abroad - letteralmente vanno al largo, come si esprime la lingua inglese che sa di mare.

È la stessa logica che accompagnava qui i primi migranti italiani di fine ‘700, grandi viaggiatori, artisti o commercianti: il senso del cosmopolitismo. Rispolverato oggi, semmai, con il valore europeistico e quel curioso timbro di estraneità che si respira appena si passa la Manica.

Le difficoltà, tuttavia, non mancano. È la solitudine di una metropoli, la dispersione, i ritmi a volte duri di lavoro, la difficoltà abitativa, la droga, la perdita di punti di riferimenti... Ciononostante, il vivere in una società pragmatica e funzionale, dove non c’è tabù comportamentale o vestimentario, dà la percezione di una crescita del proprio senso del mondo. Attraverso la lingua, lo stile di vita, la vivace dimensione multiculturale, insieme a stimoli culturali di ogni genere, nasce la precisa sensazione di essere usciti dal nido.
Si vive, allora, quel senso di provare e di provarsi. È il senso di una vita da combattere, uscendo dal contesto abituale, dal clima affettivo ristretto e vissuto in Italia. Si affronta il mondo. I modelli di vita ereditati di consumo e di riuscita si confrontano con la ristrettezza di mezzi economici, con la scuola della concretezza e del vivere in mezzo alla complessità. Come migliaia di migranti italiani venuti nell’ultimo secolo i giovani imparano che l’emigrazione è una lotta e una danza, qualcosa insieme di bello e di duro da vivere.

La fede si fa, allora, ricerca di senso religioso più profondo, spesso avvertito più fortemente che in Italia. Si impone la necessità di essere positivi, nonostante le disillusioni e le tante sconfitte. La fede si fa impegno nel mettercela tutta di fronte alle difficoltà e diventa spesso un motore.

È una lezione vera che stanno imparando. Educarsi, così, alla mobilità, a uscire dai ghetti e dalle sicurezze circoscritte, che non permettono di respirare l’interculturalità e la diversità sociale di oggi. Evitare, allora, il rischio di diventare autoreferenziali, per aprirsi a una società di tutte le razze e culture, dove la diversità non fa più paura, ma è contesto quotidiano. La vita diventa challenge, una sfida da giocare a fondo.

Così, alla fine della loro parabola all’estero, Sandro e Anna, due giovani architetti, rientrano in Italia per sposarsi e restarvi. Sono passati quattro anni intensamente vissuti a Londra, lavorando con un architetto coreano, uno indiano, un inglese e un ultimo pakistano: un team internazionale investito in grandi progetti in India. Esperienza formidabile, ti dicono entusiasti mentre brilla loro lo sguardo, ma sarà presa in conto? Difficile immaginarsi il loro futuro in Italia, quando l’ansia e la preoccupazione tormentano la gioia del ritorno. Capisci, allora, che i nostri giovani si attendono un’altra Italia. Aperta, dinamica, tollerante e partecipativa. Sarà forse quella di domani?

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