domenica, ottobre 17, 2010
del nostro collaboratore Bartolo Salone

Se si ritorna sull’argomento a distanza di alcuni anni è perché, nonostante le smentite e gli approfondimenti, continua ad essere diffusa la percezione che la Chiesa cattolica goda nel nostro Paese di ingiustificati privilegi fiscali, fra i quali l’esenzione Ici dei suoi immobili, ivi compresi quelli destinati ad attività redditizie. L’esenzione Ici, anzi, è stato (e continua ad essere) uno dei principali cavalli di battaglia di certa polemica anticlericale, in cui l’odio verso la Chiesa e la sua azione non solo spirituale ma anche sociale prevale sulla lucida analisi della realtà dei fatti. Un giornalista, ben noto all’opinione pubblica per le sue inchieste prevenute sul rapporto tra Chiesa e denaro (parlo di Curzio Maltese), evocava addirittura in un articolo pubblicato su “la Repubblica” del 25 giugno 2007 immaginari paradisi fiscali di cui gli enti ecclesiastici godrebbero in Italia per volontà di un legislatore che, come da copione, si vuole asservito al Vaticano.
Ma è davvero così? La Chiesa cattolica non paga, unica privilegiata, l’Ici sui suoi immobili? La risposta al quesito non può prescindere da un esame accurato della normativa. L’Ici – l’imposta comunale sugli immobili – venne istituita dal governo Amato nel 1992. Già in origine era prevista l’esenzione dal pagamento dell’imposta per taluni enti pubblici e privati in considerazione delle funzioni istituzionali svolte o della rilevanza sociale dell’attività esercitata. Così sono esentati dall’Ici, fra gli altri, gli immobili posseduti da Stato, Comuni e Province, dalle Asl, dalle Camere di commercio; i fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto (ovviamente non solo cattolico) e relative pertinenze; i fabbricati di proprietà della Santa Sede indicati nel Trattato del Laterano così come del resto i fabbricati appartenenti agli Stati esteri e alle organizzazioni internazionali in base alle previsioni dei trattati internazionali; nonché – e questa è la norma su cui si è scatenato il furore laicista – gli immobili appartenenti ad enti pubblici o privati, diversi dalle società, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale (c. d. enti non commerciali), a condizione che siano utilizzati esclusivamente per lo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, di religione o di culto. La definizione di ente non commerciale è tale da ricomprendere la vasta area del privato sociale italiano, del volontariato e del non-profit, che evidentemente attraverso l’esenzione in questione il legislatore ha inteso salvaguardare e valorizzare. Rientrano in tale area un numero estremamente ampio ed eterogeneo di soggetti (associazioni, fondazioni, sindacati, perfino partiti politici), per cui, se di privilegio si tratta, gli enti ecclesiastici sono in buona compagnia! Ma ciò che probabilmente dà fastidio ad alcuni, legati come sono ad una concezione centralista e autoritaria dello Stato, è proprio l’impegno profuso dagli enti religiosi (insieme con ampi settori della società civile) in attività benefiche di ogni tipo. Eppure è la nostra stessa Costituzione, nell’ottica di una visione “sussidiaria” dei rapporti tra lo Stato e la società civile, a richiedere la valorizzazione “dell’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale” (art. 118 Cost.).
Occorre altresì considerare che la mera appartenenza del bene ad un ente non commerciale non dà diritto all’esenzione Ici, se il bene medesimo non è destinato esclusivamente allo svolgimento di una o più delle predette attività di interesse generale (culturali, ricreative, sanitarie, ecc…). Accanto al requisito soggettivo dell’appartenenza del bene ad un ente non commerciale (tali sono sicuramente anche gli enti ecclesiastici, vale a dire gli enti aventi fine di religione o di culto, tanto della Chiesa cattolica quanto delle altre confessioni religiose che hanno stipulato intese con lo Stato italiano) la legge, ai fini dell’esenzione Ici, richiede quindi un ulteriore requisito di carattere oggettivo, rappresentato dall’esclusiva destinazione dell’immobile a talune precise attività di interesse generale. Alla luce di questi rilievi emerge quanto falsa e faziosa sia l’affermazione fatta da Curzio Maltese (peraltro copiata da un trafiletto di articolo del “Sole 24 ore” dedicato, guarda caso, ai privilegi fiscali della Chiesa), per la quale basterebbe costruire una cappelletta in un albergo gestito da religiosi per evitare di pagare l’Ici sull’intero immobile. In tal caso è di tutta evidenza che l’Ici si pagherebbe sull’intero immobile, cappella compresa, posto che, per ottenere l’esenzione, l’ immobile dovrebbe essere esclusivamente destinato nella sua totalità ad attività di religione o di culto e, d’altro canto, l’attività alberghiera non è tra quelle “esenti”. Piuttosto, la legge esenta gli immobili destinati ad attività recettizia, che è cosa ben diversa dall’attività alberghiera (anche se si è speculato molto pure su questo equivoco). Non pagano l’Ici dunque gli immobili utilizzati da enti non commerciali per lo svolgimento di attività di recettività sociale e turistico-sociale: la prima comprende soluzioni abitative rispondenti a bisogni di carattere sociale, come pensionati per studenti fuori sede o case di accoglienza per parenti di malati ricoverati in strutture sanitarie lontane dal luogo di residenza; la seconda risponde a bisogni diversi da quelli a cui sono destinate le strutture alberghiere, come case per ferie, colonie e strutture simili.
Il quadro appena delineato, tuttavia, si complica quando la giurisprudenza, nel 2004, comincia a richiedere, ai fini dell’esenzione, un ulteriore requisito, oltre a quelli espressamente previsti dalla legge, vale a dire quello del carattere non commerciale dell’attività svolta. Da questo momento, non basta più dunque che l’immobile sia utilizzato da un ente che opera senza fini di lucro per l’assolvimento di una delle attività di interesse generale tassativamente elencate dalla legge, ma occorre in aggiunta che l’attività medesima non venga svolta in forma commerciale. Anche qui, a dire il vero, si è giocato su un equivoco a cui bisogna prestare attenzione: attività commerciale non significa necessariamente attività lucrativa; anzi, se, come nel caso qui considerato degli enti non commerciali, il fine di lucro (ossia la realizzazione di utili da distribuire come remunerazione dell’attività svolta) deve essere escluso dallo stesso statuto dell’ente per espressa previsione di legge, il carattere commerciale dell’attività consiste praticamente nel rendere un servizio dietro pagamento di un corrispettivo. Per cui, stando alla rigorosa interpretazione giurisprudenziale, avrebbero potuto beneficiare dell’esenzione Ici solo quegli enti benefici che rendono il servizio a titolo puramente gratuito, senza chiedere il pagamento di rette o biglietti, anche se molto al di sotto rispetto al valore di mercato del servizio reso. Ma è chiaro che un’interpretazione del genere, non necessitata affatto dal testo di legge (che anzi tace su questo terzo criterio di origine squisitamente giurisprudenziale), avrebbe messo in ginocchio parecchie imprese non profit, non consentendo loro di recuperare nemmeno parte dei costi sostenuti. Quindi, il governo si è sentito obbligato ad intervenire (a mio avviso condivisibilmente) con una legge di interpretazione autentica (la n. 248/2005, di conversione del decreto-legge n. 203 di quello stesso anno), la quale precisava che l’esenzione Ici prevista per gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali per lo svolgimento di attività sociali si intende applicabile “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse”. Stranamente, sulla nuova norma si è aperto un contenzioso presso la Commissione europea, sulla base del discutibile rilievo che gli enti non commerciali che svolgono attività di interesse generale in forma commerciale siano da considerare imprese a tutti gli effetti, le quali non possono sfuggire alle regole della concorrenza, e di conseguenza l’esenzione Ici configurerebbe una illegittima forma di aiuto di Stato. Come se si potesse equiparare la posizione di chi, per spirito di solidarietà, rende un servizio sotto costo e senza alcun ritorno in termini di utili con la posizione di chi professionalmente esercita un’attività diretta alla realizzazione e alla distribuzione di profitti!
Sta di fatto che le preoccupazioni legate al rispetto delle regole comunitarie sulla concorrenza hanno indotto il legislatore ad emanare nel 2006 una seconda legge di interpretazione autentica la quale, in luogo della precedente, richiede che le attività socialmente rilevanti di cui sopra siano svolte dall’ente “in maniera non esclusivamente commerciale”, cioè secondo una logica diversa da quella del mercato. Per cui, tanto per fare un esempio, se un ente religioso gestisce un servizio doccia per senza tetto, chiedendo un piccolo contributo monetario di 50 centesimi a persona giusto per evitare deficit di bilancio, potrà senz’altro ottenere l’esenzione Ici; non invece l’ente che applicasse una tariffa media di mercato, perché altrimenti si falserebbe il gioco della libera concorrenza a danno degli imprenditori privati, che rendono il medesimo servizio magari alle stesse condizioni, ma senza usufruire di analoghi benefici di legge.
A questo punto potrà dirsi chiusa la “querelle” o qualche implacabile malizioso continuerà a ripetere la solita storiella dei privilegi fiscali della Chiesa?

Sono presenti 3 commenti

Anonimo ha detto...

sarebbe molto più coerente se la "chiesa" o meglio lo stato vaticano (perchè di questo si tratta e non di "chiesa") si facesse capofila di una proposta solidale di autotassazione dell'ICI per ridurre l'imposta a tutti coloro che si trovano costretti a pagare di più proprio per i privilegi vaticani. Ma lo farà mai il Vaticano? Non credo, perchè è in vendita come le escort del sultano- primo ministro e perchè la prima cura del vaticano è la tutela di se stesso sempre più chiuso al mondo e quindi sempre più lontano dalla gente.

Anonimo ha detto...

dalla sua risposta comprendo che non ha prestato nessuna attenzione al contenuto del mio articolo, per cui non mi dilungherò ancora in spiegazioni. la sola cosa che posso dirle è che è un errore puerile confondere lo stato della città del vaticano con gli enti ecclesiastici, i quali rappresentano invece un settore molto attivo della società civile italiana, al servizio della gente nei suoi innumerevoli bisogni, materiali come spirituali. le faccio infine notare che il suo paragone (chiesa=escort di berlusconi) offende solamente quanti nella chiesa credono e si impegnano quotidianamente. un po' di buona educazione non guasta...
Bartolo Salone

Anonimo ha detto...

buonasera,
sono l'ing. Rocco Ruffa.
Ho appena visto i filmati che testimoniano come alcuni immobili della Chiesa Cattolica che svolgono un'attività commerciale (affittare camere come un qualunque alberbo) godono dell'esenzione ICI. Si tratta di una palese violazione delle leggi sulla concorrenza.
Se un istituto religioso affitta camere da letto a sconosciuti non ci vedo niente di "solidale" o "benefico".
Abbiate almeno il buon senso di ammetterlo.
Cordiali saluti,
Rocco Ruffa

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