lunedì, maggio 31, 2010
L'ineffabile Realtà della Santa Trinità
«Il dramma dell’uomo è qui: per amare, egli deve essere libero; per amore, egli deve farsi coinvolgere nella “storia” di Dio, nel suo amore abissale, nella sua vita trinitaria. E qui vi è la possibilità del mancato coinvolgimento nell’amore divino; possibilità divenuta reale dall’inizio stesso della storia dell’uomo, e continuamente attualizzata nelle storie dei singoli uomini».
Con questa consapevolezza avviamoci alla nuova settimana: l'augurio è di essere miti e fedeli alla divina proposta d'amore.
La liturgia della domenica dopo la Pentecoste ci pone di fronte a Colui che è assolutamente altro, oltre, indicibile, insondabile, ineffabile. Il Dio di Gesù è sempre una Realtà che sfugge ad ogni possibile cattura, disorienta e sorprende. Su questa Realtà: la Santa Trinità, l’Uno dei Tre, l’Amore tripersonale in reciprocità, siamo capaci solo di emettere balbettii. Non a caso Gesù stesso ha lasciato che fosse lo Spirito Santo a pronunciare l’ultima parola: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,12-13). Infatti, lo Spirito, l’azione del Padre e del Figlio, ci introduce nel Mistero che si apre, si rivela e si dona, cerca la sua creatura, la segue e con essa riallaccia una relazione d’amore. «Entrambi si desiderano e si chiamano, si smarriscono e si cercano, si ritrovano e si abbracciano, perché si amano di un amore che non passerà: “Ti amo di un amore eterno”» (A. Chouraqui). Gesù, l’Amore incarnato di Dio, riassume in sé questa reciproca ricerca d’amore e la conduce al compimento, introducendola là dove da sempre ha la sua origine, il suo grembo e la sua patria: l’Amore eterno, vertiginoso, abissale.
Così la fede cristiana viene a scrutare l’eterna sorgività dell’Amore nella figura del Padre, il principio senza principio, che nell’amore dà inizio a tutto e non si ferma neanche di fronte ai smarrimenti, alle perdite e alle crudeltà degli uomini.
E accanto al Padre, l’eterno Amante, la fede narra del Figlio, l’eternamente Amato, la pura accoglienza dell’Amore, che ci insegna come divino non sia soltanto il dare, ma anche il ricevere, e con la sua vita nella carne - autentica “esistenza accolta” e vissuta nell’obbedienza filiale - ci rende capaci di dire il sì della fede all’iniziativa dell'amore di Dio.
Con l’Amante e con l’Amato la fede contempla la figura dello Spirito, che unisce l’uno e l’altro nel vincolo dell’Amore eterno e insieme li apre al generoso esodo della creazione e della salvezza. Quel ‘Tra-personale’, lo Spirito, viene a liberare l’amore e a renderlo sempre nuovo e irradiante.
È il mistero dell’amore divino nel quale e dal quale siamo ospitati, quasi ‘posseduti’, ‘invasi’ ed ‘estasiati’, ma nel rispetto della nostra libertà. La Bibbia è il racconto di questa Presenza misteriosa, irresistibile e impotente. È irresistibile, perché nulla può resistere alla sua potenza e alla sua forza, come ricorda il profeta Isaia: «Chi ha misurato con il cavo della mano le acque del mare/e ha calcolato l’estensione dei cieli con il palmo?/Chi ha misurato con il moggio la polvere della terra,/ha pesato con la stadera le montagne/e i colli con la bilancia?» (Is 40,12). Nello stesso tempo è impotente, perché Dio, alla cui onnipotenza non resistono né le acque del mare né l’estensione dei cieli né le montagne della terra, si arresta di fronte alla libertà dell’uomo e consegna ad essa il potere inaudito di decidersi per la vita o per la morte: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore Dio tuo, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva» (Dt 30,15-16).
Il dramma dell’uomo è qui: per amare, egli deve essere libero; per amore, egli deve farsi coinvolgere nella “storia” di Dio, nel suo amore abissale, nella sua vita trinitaria. E qui vi è la possibilità del mancato coinvolgimento nell’amore divino; possibilità divenuta reale dall’inizio stesso della storia dell’uomo, e continuamente attualizzata nelle storie dei singoli uomini. Quanto male sofferto dall’uomo è frutto dell’uomo stesso, delle sue istituzioni, dell’acquiescenza colpevole di singoli e di popoli al male e alla sofferenza degli altri! «Quando si discosta dal disegno di Dio – scrisse Giovanni Paolo II nel suo messaggio per la giornata mondiale della pace 1990 –, l’uomo provoca un disordine che inevitabilmente si ripercuote sul resto del creato. Se l’uomo non è in pace con Dio, la terra stessa non è in pace: “Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno” (Os 4,3)».
Giovedì, insieme a p. Ilario, al ministro provinciale di Danzica Adam e al segretario provinciale Piotr, visitavo le meraviglie della costa ionica e tirrenica: panorami da mozzare il fiato per la loro bellezza. A Palmi si vedeva lo Stretto di Messina e le isole Eolie, immerse nel mare azzurro. E il pensiero inevitabilmente si rattristava nel constatare come tanta bellezza venga sovente sfregiata dagli esseri umani. È come un tragico monito del cielo quanto recentemente si è verificato nel Golfo del Messico, con la fuoriuscita dal fondo del mare a 1500 metri di immani quantità di petrolio, a causa della rottura della conduttura che lo porta in superficie. Un disastro che avrà conseguenze terribili e inimmaginabili. Che ci sconforta è l'incuria criminale del territorio, diffusa e praticata nel mondo, anche in Italia, dove luoghi incantevoli, soprattutto del Sud, vengono trasformati in discariche a cielo aperto, per materiali e liquidi di scarto ad alto potenziale inquinante, così alto da impedire perfino la crescita della vegetazione, come alcuni filmati ci hanno mostrato. La frase di Luigi XV: «Dopo di me, il diluvio», è il motto dell’uomo postmoderno. Sembra ormai non esserci più un futuro del quale prendersi cura e non esiste più l’idea che ci siano dei limiti che non si possano varcare. Per duemila anni l’uomo ha immaginato l’apocalisse come un castigo ineluttabile, che, un giorno, sarebbe piovuto dal cielo. Ora improvvisamente cambiano le carte in tavola. L’apocalisse è già tra noi e non è caduta dal cielo, ma è una semplice conseguenza della nostra sfrenata libertà.
«Abbiamo agito convinti della nostra onnipotenza e, all’improvviso, ci rendiamo conto che non possiamo tutto. Abbiamo saccheggiato la terra, scordando il profondo e misterioso rapporto di interdipendenza che ad essa ci lega. E ora la terra ci ricorda che non quello del predatore era il nostro ruolo, ma quello del custode. Avremmo dovuto custodire la terra, le acque, gli animali, le piante, ma per farlo avremmo dovuto avere in noi l’idea del sacro. E invece abbiamo voluto solo possedere (…), fino all’inverosimile, per riempire l’enorme vuoto che si è creato al nostro interno. E più possediamo, più il vuoto si dilata, ci risucchia, ci spinge disperatamente a possedere ancora. Ci riempiamo di oggetti per tacitare la finitezza del nostro essere – leggiamo nell’articolo L’océano avvelenato e l’apocalisse della nostra fragilità della grande e sensibile scrittrice triestina Susanna Tamaro, pubblicato il 27 maggio sul Corriere della Sera – e inseguiamo il potere, perché abbiamo il terrore dell’amore. Protetti da questa cecità e dalle sirene che ci ripetono costantemente di non preoccuparci, perché quello che non è ancora sotto controllo presto lo sarà, non ci siamo accorti che la violenza, anziché essere una forza che si esaurisce nel suo scopo, con tempi di maturazione diversi, ne genera dell'altra, sempre più grande. La terra ci restituisce semplicemente il male che le abbiamo fatto. Si stanno aprendo davanti a noi tempi di cambiamenti eccezionali, tempi di incertezza, di instabilità, di fenomeni ai quali non eravamo preparati – gli tsunami, i terremoti, le eruzioni, i tornadi, le alluvioni – e ci ricordano che per le forze della terra noi siamo, nonostante tutta la nostra tecnologia, quello che siamo sempre stati: delle minuscole formiche», create tuttavia a immagine del Dio triuno.
Tutti questi segnali della terra, uniti ai segni della società dell’uomo – la crisi economica globale, la scomparsa dei valori, le carestie, le guerre fratricide e la sempre presente minaccia atomica – ci introducono in un’epoca per noi nuova, quella dell’apocalisse (apocalyptein – svelare).
Gli accadimenti di questi giorni e di questi anni ci stanno svelando la nostra impotenza, la nostra fragilità, il nostro modo errato di porci nei confronti del creato, degli altri esseri umani e del mistero. Così il tempo apocalittico può diventare un tempo straordinariamente fecondo, in cui la catastrofe produce un risveglio delle coscienze e una nuova consapevolezza sul senso dell’esistere. Quanta distruzione, quanta negatività in un mondo in cui la tecnica non cammina accanto alla sapienza! Quanta disperazione, quanta angoscia, quanto vuoto tra gli uomini non più in grado di contemplare la loro finitezza e darle un senso! L’apocalisse viene forse proprio per togliere un velo dai nostri occhi e donarci un nuovo sguardo, capace di osservare la realtà com’è e non come dovrebbe essere secondo i nostri sogni utopistici. La realtà è qui davanti ai noi e ci parla costantemente, solo che non sappiamo più ascoltarla. Se avessimo saputo ascoltarla, avremmo compreso da tempo che ci sono sempre due vie che si aprono davanti a noi: la via del potere e la via dell’amore.
Che Dio Amore venga accolto nella nostra esperienza di vita, con tutta la forza trasformante che egli ha! Egli ci ama immensamente. Il suo amore avvolge i cristiani, la Chiesa, il mondo, il cosmo intero…
O insondabile Mistero dell'Amore divino, illumina per un attimo i nostri occhi con la luce abbagliante del tuo Essere. Aiutaci a sentirti e ad amarti con cuore tenero e appassionato. Rendici docili e umili nell'ascoltarti, nel seguirti, nel partecipare ai nostri fratelli la gioia infinita della tua abissale Realtà d'Amore...
Con questa consapevolezza avviamoci alla nuova settimana: l'augurio è di essere miti e fedeli alla divina proposta d'amore.
La liturgia della domenica dopo la Pentecoste ci pone di fronte a Colui che è assolutamente altro, oltre, indicibile, insondabile, ineffabile. Il Dio di Gesù è sempre una Realtà che sfugge ad ogni possibile cattura, disorienta e sorprende. Su questa Realtà: la Santa Trinità, l’Uno dei Tre, l’Amore tripersonale in reciprocità, siamo capaci solo di emettere balbettii. Non a caso Gesù stesso ha lasciato che fosse lo Spirito Santo a pronunciare l’ultima parola: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,12-13). Infatti, lo Spirito, l’azione del Padre e del Figlio, ci introduce nel Mistero che si apre, si rivela e si dona, cerca la sua creatura, la segue e con essa riallaccia una relazione d’amore. «Entrambi si desiderano e si chiamano, si smarriscono e si cercano, si ritrovano e si abbracciano, perché si amano di un amore che non passerà: “Ti amo di un amore eterno”» (A. Chouraqui). Gesù, l’Amore incarnato di Dio, riassume in sé questa reciproca ricerca d’amore e la conduce al compimento, introducendola là dove da sempre ha la sua origine, il suo grembo e la sua patria: l’Amore eterno, vertiginoso, abissale.
Così la fede cristiana viene a scrutare l’eterna sorgività dell’Amore nella figura del Padre, il principio senza principio, che nell’amore dà inizio a tutto e non si ferma neanche di fronte ai smarrimenti, alle perdite e alle crudeltà degli uomini.
E accanto al Padre, l’eterno Amante, la fede narra del Figlio, l’eternamente Amato, la pura accoglienza dell’Amore, che ci insegna come divino non sia soltanto il dare, ma anche il ricevere, e con la sua vita nella carne - autentica “esistenza accolta” e vissuta nell’obbedienza filiale - ci rende capaci di dire il sì della fede all’iniziativa dell'amore di Dio.
Con l’Amante e con l’Amato la fede contempla la figura dello Spirito, che unisce l’uno e l’altro nel vincolo dell’Amore eterno e insieme li apre al generoso esodo della creazione e della salvezza. Quel ‘Tra-personale’, lo Spirito, viene a liberare l’amore e a renderlo sempre nuovo e irradiante.
È il mistero dell’amore divino nel quale e dal quale siamo ospitati, quasi ‘posseduti’, ‘invasi’ ed ‘estasiati’, ma nel rispetto della nostra libertà. La Bibbia è il racconto di questa Presenza misteriosa, irresistibile e impotente. È irresistibile, perché nulla può resistere alla sua potenza e alla sua forza, come ricorda il profeta Isaia: «Chi ha misurato con il cavo della mano le acque del mare/e ha calcolato l’estensione dei cieli con il palmo?/Chi ha misurato con il moggio la polvere della terra,/ha pesato con la stadera le montagne/e i colli con la bilancia?» (Is 40,12). Nello stesso tempo è impotente, perché Dio, alla cui onnipotenza non resistono né le acque del mare né l’estensione dei cieli né le montagne della terra, si arresta di fronte alla libertà dell’uomo e consegna ad essa il potere inaudito di decidersi per la vita o per la morte: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore Dio tuo, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva» (Dt 30,15-16).
Il dramma dell’uomo è qui: per amare, egli deve essere libero; per amore, egli deve farsi coinvolgere nella “storia” di Dio, nel suo amore abissale, nella sua vita trinitaria. E qui vi è la possibilità del mancato coinvolgimento nell’amore divino; possibilità divenuta reale dall’inizio stesso della storia dell’uomo, e continuamente attualizzata nelle storie dei singoli uomini. Quanto male sofferto dall’uomo è frutto dell’uomo stesso, delle sue istituzioni, dell’acquiescenza colpevole di singoli e di popoli al male e alla sofferenza degli altri! «Quando si discosta dal disegno di Dio – scrisse Giovanni Paolo II nel suo messaggio per la giornata mondiale della pace 1990 –, l’uomo provoca un disordine che inevitabilmente si ripercuote sul resto del creato. Se l’uomo non è in pace con Dio, la terra stessa non è in pace: “Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue, insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno” (Os 4,3)».
Giovedì, insieme a p. Ilario, al ministro provinciale di Danzica Adam e al segretario provinciale Piotr, visitavo le meraviglie della costa ionica e tirrenica: panorami da mozzare il fiato per la loro bellezza. A Palmi si vedeva lo Stretto di Messina e le isole Eolie, immerse nel mare azzurro. E il pensiero inevitabilmente si rattristava nel constatare come tanta bellezza venga sovente sfregiata dagli esseri umani. È come un tragico monito del cielo quanto recentemente si è verificato nel Golfo del Messico, con la fuoriuscita dal fondo del mare a 1500 metri di immani quantità di petrolio, a causa della rottura della conduttura che lo porta in superficie. Un disastro che avrà conseguenze terribili e inimmaginabili. Che ci sconforta è l'incuria criminale del territorio, diffusa e praticata nel mondo, anche in Italia, dove luoghi incantevoli, soprattutto del Sud, vengono trasformati in discariche a cielo aperto, per materiali e liquidi di scarto ad alto potenziale inquinante, così alto da impedire perfino la crescita della vegetazione, come alcuni filmati ci hanno mostrato. La frase di Luigi XV: «Dopo di me, il diluvio», è il motto dell’uomo postmoderno. Sembra ormai non esserci più un futuro del quale prendersi cura e non esiste più l’idea che ci siano dei limiti che non si possano varcare. Per duemila anni l’uomo ha immaginato l’apocalisse come un castigo ineluttabile, che, un giorno, sarebbe piovuto dal cielo. Ora improvvisamente cambiano le carte in tavola. L’apocalisse è già tra noi e non è caduta dal cielo, ma è una semplice conseguenza della nostra sfrenata libertà.
«Abbiamo agito convinti della nostra onnipotenza e, all’improvviso, ci rendiamo conto che non possiamo tutto. Abbiamo saccheggiato la terra, scordando il profondo e misterioso rapporto di interdipendenza che ad essa ci lega. E ora la terra ci ricorda che non quello del predatore era il nostro ruolo, ma quello del custode. Avremmo dovuto custodire la terra, le acque, gli animali, le piante, ma per farlo avremmo dovuto avere in noi l’idea del sacro. E invece abbiamo voluto solo possedere (…), fino all’inverosimile, per riempire l’enorme vuoto che si è creato al nostro interno. E più possediamo, più il vuoto si dilata, ci risucchia, ci spinge disperatamente a possedere ancora. Ci riempiamo di oggetti per tacitare la finitezza del nostro essere – leggiamo nell’articolo L’océano avvelenato e l’apocalisse della nostra fragilità della grande e sensibile scrittrice triestina Susanna Tamaro, pubblicato il 27 maggio sul Corriere della Sera – e inseguiamo il potere, perché abbiamo il terrore dell’amore. Protetti da questa cecità e dalle sirene che ci ripetono costantemente di non preoccuparci, perché quello che non è ancora sotto controllo presto lo sarà, non ci siamo accorti che la violenza, anziché essere una forza che si esaurisce nel suo scopo, con tempi di maturazione diversi, ne genera dell'altra, sempre più grande. La terra ci restituisce semplicemente il male che le abbiamo fatto. Si stanno aprendo davanti a noi tempi di cambiamenti eccezionali, tempi di incertezza, di instabilità, di fenomeni ai quali non eravamo preparati – gli tsunami, i terremoti, le eruzioni, i tornadi, le alluvioni – e ci ricordano che per le forze della terra noi siamo, nonostante tutta la nostra tecnologia, quello che siamo sempre stati: delle minuscole formiche», create tuttavia a immagine del Dio triuno.
Tutti questi segnali della terra, uniti ai segni della società dell’uomo – la crisi economica globale, la scomparsa dei valori, le carestie, le guerre fratricide e la sempre presente minaccia atomica – ci introducono in un’epoca per noi nuova, quella dell’apocalisse (apocalyptein – svelare).
Gli accadimenti di questi giorni e di questi anni ci stanno svelando la nostra impotenza, la nostra fragilità, il nostro modo errato di porci nei confronti del creato, degli altri esseri umani e del mistero. Così il tempo apocalittico può diventare un tempo straordinariamente fecondo, in cui la catastrofe produce un risveglio delle coscienze e una nuova consapevolezza sul senso dell’esistere. Quanta distruzione, quanta negatività in un mondo in cui la tecnica non cammina accanto alla sapienza! Quanta disperazione, quanta angoscia, quanto vuoto tra gli uomini non più in grado di contemplare la loro finitezza e darle un senso! L’apocalisse viene forse proprio per togliere un velo dai nostri occhi e donarci un nuovo sguardo, capace di osservare la realtà com’è e non come dovrebbe essere secondo i nostri sogni utopistici. La realtà è qui davanti ai noi e ci parla costantemente, solo che non sappiamo più ascoltarla. Se avessimo saputo ascoltarla, avremmo compreso da tempo che ci sono sempre due vie che si aprono davanti a noi: la via del potere e la via dell’amore.
Che Dio Amore venga accolto nella nostra esperienza di vita, con tutta la forza trasformante che egli ha! Egli ci ama immensamente. Il suo amore avvolge i cristiani, la Chiesa, il mondo, il cosmo intero…
O insondabile Mistero dell'Amore divino, illumina per un attimo i nostri occhi con la luce abbagliante del tuo Essere. Aiutaci a sentirti e ad amarti con cuore tenero e appassionato. Rendici docili e umili nell'ascoltarti, nel seguirti, nel partecipare ai nostri fratelli la gioia infinita della tua abissale Realtà d'Amore...